Il corredo di Alcesti

Se ne parlava da sempre in paese di questa stanza. E per quei giochi della sorte che organizza gli incontri, io camminando oggi l’ho trovata.

Forse ora lei è uscita, perché non sento brividi né freddo né paura, ma un risucchio doloroso e dolce che mi fa portare le mani al petto.

Spingo la porta e ancora sulla soglia percorro la stanza con lo sguardo. Non è tanto larga ma profonda e abbastanza alta da contenere in fondo un soppalco, nel quale si intravede un letto disfatto.

I muri bianchi mettono in risalto un quadro a sinistra. Il quadro è appoggiato a terra e non ha forme che si possano nominare. Forme che richiamano l’origine, un grumo nero che sporge e una forma rosa. L’utero, fabbrica di Dio sulla terra, penso, o forse lo sento come un sussurro all’orecchio.

È da qui che sei uscita, Alcesti?
C’è chi se ne è andato dall’altra parte guardando un quadro. C’era chi invecchiava in soffitta. E forse tu sei tornata per questa via.
Attraverso questa porta sei tornata?

Dal quadro, insieme a lei, è uscito il vecchio baule che custodiva il suo corredo nuziale.
Ora i suoi vestiti abitano la stanza.
Pizzo e catrame. I segni dell’acqua, i morsi, le fiamme.

Li guardo uno a uno. Sembra un corredo nuziale antico che si tiene in piedi da solo. Come se gli abiti fossero ancora abitati dal corpo per il quale sono stati misurati al dettaglio, cuciti, ricamati.

Mi avvicino al corsetto in pizzo bianco e sembra aprirsi una scena come in sogno.
Sotto il tessuto compare la visione di un corpo, che si vede e non si vede oltre il pizzo.

Un corpo promesso a uno sposo che berrà dalla vita che lei gli offrirà. Che seduta sul letto deciderà di offrire per salvarlo. Perché nessuno si salva da solo.

Il cuore di Alcesti trafitto dalla scelta sanguina attraverso il corsetto.

Ti amo da morire, dice Alcesti e muore.
Sprofonda e si perde.
Risale dopo tre giorni.

Rinasce senza memoria e silenziosa, ma i suoi abiti qui, ancora e di nuovo in piedi, raccontano la sua storia.

Mercedes Viola